Alcuni aspetti salienti dell’odierna epidemia di Coronavirus, analogie e differenze con la storia narrata nei capitoli sulla Peste de “I Promessi Sposi” di Manzoni Alessandro:
> Ricerca effettuata sull’edizione commentata da DOLCI Giulio, VII edizione, casa editrice Trevisini, Milano 1950.
> Vedi soprattutto i capitoli XXXI e XXXII.

SUNTO

1) I focolai più intensi sono in Lombardia, e in particolare nel lodigiano e nel bergamasco:

2) Della malattia in realtà non si sa nulla – tant’è che non esistono né cure specifiche né vaccini e la gente inizialmente si affida anche al sentito dire o a rimedi improvvisati:

3) Il primo allarme sul contagio è lanciato da un medico esperto che però è ignorato e persino accusato di procurato allarme, e qualcosa di simile si ripete in altri paesi colpiti dal contagio:

4) All’inizio, tra la popolazione dei paesi non ancora contagiati, tra i commercianti e anche tra le autorità di governo, prevale la sottovalutazione complessiva, se non lo scherno:

5) Una volta appurato che il morbo colpisce migliaia di persone si va alla ricerca di una persona: il Paziente Zero:

6) Tra le prime contromisure adottate ci sono la segregazione in casa e il ricovero forzato dei primi pazienti. L’infezione quindi si propaga prima in casa tra i parenti e poi nei luoghi dove sono passati i contagiati (alberghi, luoghi pubblici) e quindi negli ospedali tra medici e infermieri che li hanno curati.

7) Le prime ordinanze di limitazione alla circolazione appaiono rigide ma la loro imperfezione data la novità, la rilassatezza e la difficoltà a metterle in pratica, e l’abilità con la quale la gente le elude, non riescono certo a fermare il contagio:

8) Il numero dei contagiati, inizialmente basso, e la non conoscenza del morbo, inducono la gente, e alcuni medici, a sottovalutarne la letalità e – per andar dietro al senso comune – a raccontare balle sulla malattia o a definirla solo un’influenza:

9) Sono in particolare piccoli e medi imprenditori e bottegai [il Partito del Pil, ndr] a osteggiare l’idea di epidemia perchè gli manda all’aria gli affari e ne tocca direttamente i patrimoni:

10) Per paura di essere fermati, segregati o ricoverati d’autorità, quelli che temono di essere contagiati – o lo sono già anche a loro insaputa – cercano di fuggire ad ogni costo, rifugiandosi nelle seconde case o nelle regioni di origine:

11) Man mano che l’epidemia si
diffonde, le autorità di governo iniziano a dar credito ai virologi e adottano misure drastiche contenimento, mentre Comuni e Regioni discutono di aiuti alla sanità e all’economia, di indennizzi e sospensione delle tasse, di chi dovrà accollarsi la spesa, e nel contempo sollecitano lo Stato italiano e Bruxelles a sforare il bilancio pubblico:

12) Quando si racconta una balla, e questa viene poi scoperta, per giustificarsi se ne racconta un’altra ancora più grande, e così via, con il risultato di peggiorare la situazione:

13) Con l’aumentare del numero dei contagi, il sistema sanitario inizia ad andare in crisi: mancano letti, medici e infermieri [durante la Peste di Milano, le autorità chiesero aiuto alla Chiesa e i Cappuccini misero a disposizione il loro personale che si adoperò in tutte le mansioni necessarie, ndr]

14) Si discute dell’efficacia del sistema democratico e di quello totalitario [specie cinese] nel combattere il contagio: [durante la Peste di Milano, il MANZONI confronta le carenze e la “confusione” della gestione precedente con i risultati della “dittatura” del Cappuccino al comando del Lazzaretto, ndr]

15) Le bugie, l’incertezza, la confusione e le paure accumulate fanno si che si dia presto la caccia all’ “untore”: prima sono i cinesi ad aver portato il virus – ed alcuni sono persino aggrediti e percossi per strada – poi i tedeschi, quindi gli stranieri in genere e, non da ultimi, per SALVINI, i migranti sui barconi. MANZONI racconta dei sospetti “untori” gettati in galera.

16) Si creano situazioni di panico, di suggestione collettiva: chi corre per prendere il treno per fuggire da Milano, chi si precipita nei supermercati a fare scorte o nelle farmacie ad acquistare mascherine e gel disinfettante, un fenomeno che assomiglia al “celebre delirio” descritto da MANZONI:

17) L’affollarsi degli ospedali provoca una carenza di medici e di infermieri, e l’aumento della mortalità crea difficoltà per le sepolture, costringendo le autorità ad assunzioni straordinarie e all’allestimento di nuove strutture.

18) Le spese enormi necessarie a finanziare l’emergenza sanitaria e a sovvenzionare le attività economiche bloccate oltre che le mancate entrate dalla sospensione delle tasse, richiedono al governo di stanziare Md€ (3 Md€ lievitati a 7 Md€ e più di recente a 10 Md€) e quindi di aumentare il debito pubblico:

19) Atteggiamento collaborativo ma ambivalente della Chiesa: il Card. BASSETTI (P. Cei) su Avvenire ha dichiarato che la Chiesa si allinea pienamente alle disposizioni del governo, ma, secondo il CS, avrebbe sospeso messe e funerali solo dopo un braccio di ferro con il Governo, e nel comunicato ufficiale avrebbe fatto trapelare un forte disappunto, perchè come dicevano gli antici martiri “Sine Dominicum non possumus” e specificando che “Le Chiese in Italia non sono la setta sud-coreana dove si prega ansimando e tenendosi per mano”

20) Nel contrastato dibattito sulle misure contro il contagio, il governo finisce per limitare la circolazione delle persone, gli assembramenti e le manifestazioni pubbliche di ogni genere, compreso il calcio, suscitando paure e malumori: evidenti le analogie con le sollecitazioni e le resistenze alla processione con le spoglie di San Carlo descritta dal MANZONI, che invece di scongiurare la peste a Milano la diffonde:

21) Nota: Il Cardinal Federigo BORROMEO da un lato si preoccupò di salvare, mandandoli in luoghi salubri, gli artigiani e i suoi sacerdoti più validi, in vista della solidità della Chiesa all’ indomani dell’epidemia, ma dall’altro invitò chi restava ad “andare incontro alla peste come a un premio”.

22) Nota: MANZONI ricostruisce la diffusione del contagio dopo la processione e rivela una serie di dati quantitativi:
– La peste del 1630 portò via circa 1 milione di persone tra Lombardia, Veneto, Piemonte, Toscana e parte dell Romagna.
– Il Lazzaretto di Milano era inizialmente dotato di 12.000 posti ai quali se ne aggiunsero altri 4.000 ricavati all’esterno in una nuova costruzione tutta di capanne e recintata.
– Nei 7 mesi del 1630 nei quali il Cappuccino Felice CASATI ebbe la guida del Lazzaretto, vi passarono 50.000 ricoverati.
– Dal giorno successivo alla processione dell’11 giugno 1630, gli appestati ricoverati nel lazzaretto passano da 2.000 a 12.000 e poi a 16.000 il 4 luglio 1630, con una mortalità giornaliera di 500 persone e un picco da 1.200 a 3.500 decessi al giorno.
– La popolazione di Milano si riduce quindi da 250.000 abitanti a poco più di 64.000, subendo circa 140.000 morti.

SUNTO E SVOLGIMENTO

1) I focolai più intensi sono in Lombardia, e in particolare nel lodigiano e del bergamasco:

– [p. 602] «La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c’era entrata davvero, come è noto; ed è noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò una buona parte d’Italia»
> Nota di DOLCI Giulio: “«Scoppiata a Chiuso, ultima terra del territorio di Lecco, sul confine del bergamasco, verso la metà di ottobre del 1629, portata a Milano il 22 di quel mese, secondo il TADINO, o il 22 novembre, secondo il RIPAMONTI, o ai primi del mese stesso, come crede il MANZONI, covò nell’inverno del 1629 e 30, scoppiò nella primavera del 30, toccò il colmo nell’estate, cominciò a decrescere nel settembre, lasciandosi dietro uno strascico e, infine, il solo timore per tutto il 1631. Se ne dichiarò ufficialmente il termine, dopo una quarantina di tutta la città, il 2 febbraio 1623»

2) Della malattia in realtà non si sa nulla – tant’è che non esistono né cure specifiche né vaccini e la gente inizialmente si affida anche al sentito dire o a rimedi improvvisati:

– [pp. 603-604] «…un tratto di storia patria più famoso che conosciuto […] Delle molte relazioni contemporanee, non ce n’è alcuna che basti da sé a darne un’idea un po’ distinta e ordinata […] in ognuna sono omessi fatti essenziali […]; in ognuna ci sono errori materiali […], l’idea che se ne ha generalmente, dev’essere, di necessità, molto incerta, e un po’ confusa: un’idea indeterminata di gran mali e di grand’errori […], un’idea composta più di giudizi che di fatti, alcuni fatti dispersi, non di rado scompagnati dalle circostanze più caratteristiche, senza distinzion di tempo»
– [p. 690] “et ci parevano, – dice il TADINO, – tante creature seluatiche, portando in mano chi l’herba menta, chi la ruta, chi il rosmarino et chi una ampolla d’aceto”

3) Il primo allarme sul contagio è lanciato da un medico esperto che però è ignorato e persino accusato di procurato allarme, e qualcosa di simile si ripete in altri paesi colpiti dal contagio:

– [p. 605] “Il protofisico Lodovico SETTALA, ché, non solo aveva veduta quella peste, ma n’era stato uno de’ più attivi e intrepidi, e, quantunque allor giovinissimo, de’ più riputati curatori […] riferì, il 20 d’ottobre, nel tribunale della sanità, come, nella terra di Chiuso (l’ultima del territorio di Lecco, e confinante col bergamasco), era scoppiato indubitabilmente il contagio. Non fu per questo presa veruna risoluzione, come si ha dal Ragguaglio del TADINO (Pag. 24). Ed ecco sopraggiungere avvisi somiglianti da Lecco e da Bellano. Il tribunale allora si risolvette e si contentò di spedire un commissario che, strada facendo, prendesse un medico a Como, e si portasse con lui a visitare i luoghi indicati. Tutt’e due, “o per ignoranza o per altro, si lasciorno persuadere da un vecchio et ignorante barbiero di Bellano, che quella sorte de mali “non era Peste” (TADINO, ivi.)»
– [p. 611] «L’odio principale cadeva sui due medici; il suddetto TADINO, e Senatore SETTALA , figlio del protofisico […], che ormai non potevano attraversar le piazze senza essere assaliti da parolacce, quando non eran sassi […] per qualche mese, si trovaron quegli uomini, di veder venire avanti un orribile flagello, l’affaticarsi in ogni maniera a stornarlo, d’incontrare ostacoli dove cercavano aiuti, e d’essere insieme bersaglio delle grida, avere il nome di nemici della patria».

4) All’inizio, tra la popolazione dei paesi non ancora contagiati, tra i commercianti e anche tra le autorità di governo, prevale la sottovalutazione complessiva, se non lo scherno:

– [p. 607] «Ma […] ciò che fa nascere un’altra e più forte maraviglia, è la condotta della popolazione medesima […] non tocca ancora dal contagio […]. All’arrivo di quelle nuove de’ paesi che n’erano così malamente imbrattati […] sulle piazze, nelle botteghe, nelle case, chi buttasse là una parola del pericolo, chi motivasse peste, veniva accolto con beffe incredule, con disprezzo iracondo. La medesima miscredenza, […] cecità e fissazione prevaleva nel senato, nel Consiglio de’ decurioni, in ogni magistrato»

5) Una volta appurato che il morbo colpisce migliaia di persone si va alla ricerca di una persona: il Paziente Zero:

– [p. 609] «Il TADINO e il RIPAMONTI vollero notare il nome di chi ce la portò il primo […], nell’osservare i princìpi d’una vasta mortalità […] per il numero delle migliaia, nasce una non so quale curiosità di conoscere que’ primi e pochi nomi […]: questa specie di distinzione, la precedenza nell’esterminio, par che faccian trovare in essi, e nelle particolarità, per altro più indifferenti, qualche cosa di fatale e di memorabile. L’uno e l’altro storico dicono che fu un soldato italiano al servizio di Spagna; nel resto non sono ben d’accordo, neppur sul nome. Fu, secondo il TADINO, un Pietro Antonio Lovato, di quartiere nel territorio di Lecco; secondo il RIPAMONTI, un Pier Paolo Locati, di quartiere a Chiavenna […]; entrò questo fante sventurato e portator di sventura, con un gran fagotto di vesti comprate o rubate a soldati alemanni; andò a fermarsi in una casa di suoi parenti, nel borgo di porta orientale, vicino ai cappuccini; appena arrivato, s’ammalò; fu portato allo spedale […] il quarto giorno morì»

6) Tra le prime contromisure adottate ci sono la segregazione in casa e il ricovero forzato dei primi pazienti. L’infezione quindi si propaga prima in casa tra i parenti e poi nei luoghi dove sono passati i contagiati (alberghi, luoghi pubblici) e quindi negli ospedali tra medici e infermieri che li hanno curati.

– [p. 610]: «Il tribunale della sanità fece segregare e sequestrare in casa la di lui famiglia; i suoi vestiti e il letto in cui era stato allo spedale, furon bruciati. Due serventi che l’avevano avuto in cura, e un buon frate che l’aveva assistito, caddero anch’essi ammalati in pochi giorni […] Ma il soldato ne aveva lasciato di fuori un seminìo che non tardò a germogliare. Il primo a cui s’attaccò, fu il padrone della casa dove quello aveva alloggiato, un Carlo Colonna sonator di liuto. Allora tutti i pigionali di quella casa furono, d’ordine della Sanità, condotti al lazzeretto, dove la più parte s’ammalarono; alcuni morirono».

7) Le prime ordinanze di limitazione alla circolazione appaiono rigide ma la loro imperfezione data la novità, la rilassatezza e la difficoltà a metterle in pratica, e l’abilità con la quale la gente le elude, non riescono certo a fermare il contagio:

– [p. 610]: «Nella città, quello che già c’era stato disseminato da costoro, da’ loro panni, da’ loro mobili trafugati da parenti, da pigionali, da persone di servizio, alle ricerche e al fuoco prescritto dal tribunale, e di più quello che c’entrava di nuovo, per l’imperfezion degli editti, per la trascuranza nell’eseguirli, e per la destrezza nell’eluderli, andò covando e serpendo lentamente, tutto il restante dell’anno, e ne’ primi mesi del susseguente»

8) Il numero dei contagi, inizialmente basso, e la non conoscenza del morbo, inducono la gente, e alcuni medici, a sottovalutarne la letalità e – per andar dietro al senso comune – a raccontare balle sulla malattia o a definirla solo un’influenza:

– [p. 610] «Di quando in quando, ora in questo, ora in quel quartiere, a qualcheduno s’attaccava, qualcheduno ne moriva: e la radezza stessa de’ casi allontanava il sospetto della verità, confermava sempre più il pubblico in quella stupida e micidiale fiducia che non ci fosse peste, né ci fosse stata neppure un momento. Molti medici ancora, facendo eco alla voce del popolo (era, anche in questo caso, voce di Dio?), deridevan gli augùri sinistri, gli avvertimenti minacciosi de’ pochi; e avevan pronti nomi di malattie comuni, per qualificare ogni caso di peste che fossero chiamati a curare; con qualunque sintomo, con qualunque segno fosse comparso»

9) Sono in particolare piccoli e medi imprenditori e bottegai [il Partito del Pil, ndr] a osteggiare l’idea di epidemia perchè gli manda all’aria gli affari e ne tocca direttamente i patrimoni:

– [p. 611] «a ogni scoperta che gli riuscisse fare, il tribunale ordinava di bruciar robe, metteva in sequestro case, mandava famiglie al lazzeretto, così è facile argomentare quanta dovesse essere contro di esso l’ira e la mormorazione del pubblico, “della Nobiltà, delli Mercanti et della plebe”, dice il TADINO; persuasi, com’eran tutti, che fossero vessazioni senza motivo, e senza costrutto».

10) Per paura di essere fermati, segregati o ricoverati d’autorità, quelli che temono di essere contagiati – o lo sono già anche a loro insaputa – cercano di fuggire ad ogni costo, rifugiandosi nelle seconde case o nelle regioni di origine:

– [p. 605]: «Scorsero il territorio di Lecco, la Valsassina, le coste del lago di Como, i distretti denominati il Monte di Brianza, e la Gera d’Adda; e per tutto trovarono paesi chiusi […] e gli abitanti scappati e attendati alla campagna, o dispersi»
– [p. 611]: «Il terrore della contumacia e del lazzeretto aguzzava tutti gl’ingegni: non si denunziavan gli ammalati, si corrompevano i becchini e i loro soprintendenti; da subalterni del tribunale stesso […], s’ebbero, con danari, falsi attestati»

11) Man mano che l’epidemia si diffonde, le autorità di governo iniziano a dar credito ai virologi e adottano misure drastiche contenimento, mentre Comuni e Regioni discutono di aiuti alla sanità e all’economia, di indennizzi e sospensione delle tasse, di chi dovrà accollarsi la spesa, e nel contempo sollecitano lo Stato italiano e Bruxelles a sforare il bilancio pubblico:

– [p. 613]: «I magistrati, come chi si risente da un profondo sonno, principiarono a dare un po’ più orecchio agli avvisi, alle proposte della Sanità, a far eseguire i suoi editti, i sequestri ordinati, le quarantene prescritte da quel tribunale. Chiedeva esso di continuo anche danari per supplire alle spese giornaliere, crescenti, del lazzeretto, di tanti altri servizi; e li chiedeva ai decurioni, intanto che fosse deciso […] se tali spese toccassero alla città, o all’erario regio. Ai decurioni faceva pure istanza il gran cancelliere, per ordine anche del governatore […]; faceva istanza il senato, perché pensassero alla maniera di vettovagliar la città, prima che dilatandovisi per isventura il contagio, le venisse negato pratica dagli altri paesi; perché trovassero il mezzo di mantenere una gran parte della popolazione, a cui eran mancati i lavori».

12) Quando si racconta una balla, e questa viene poi scoperta, per giustificarsi se ne racconta un’altra ancora più grande, e così via, con il risultato di peggiorare la situazione:

– [p. 613]: «Ma sul finire del mese di marzo, cominciarono, prima nel borgo di porta orientale, poi in ogni quartiere della città, a farsi frequenti le malattie, le morti […]. I medici opposti alla opinion del contagio, non volendo ora confessare ciò che avevan deriso, e dovendo pur dare un nome generico alla nuova malattia […]trovarono quello di febbri maligne, di febbri pestilenti: miserabile transazione, anzi trufferia di parole, e che pur faceva gran danno; perché, figurando di riconoscere la verità, riusciva ancora a non lasciar credere ciò che più importava di credere, di vedere, che il male s’attaccava per mezzo del contatto».
– [p. 621] «In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste, vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s’è attaccata un’altra idea, l’idea del venefizio e del malefizio»

13) Con l’aumentare del numero dei contagi, il sistema sanitario inizia ad andare in crisi: mancano letti, medici e infermieri [durante la Peste di Milano, le autorità chiesero aiuto alla Chiesa e i Cappuccini misero a disposizione il loro personale che si adoperò in tutte le mansioni necessarie, ndr]

– [p. 614]: «Nel lazzeretto, dove la popolazione, quantunque decimata ogni giorno, andava ogni giorno crescendo, era un’altra ardua impresa quella d’assicurare il servizio e […] di stabilirvi il governo ordinato dal tribunale della sanità: ché, fin da’ primi momenti, c’era stata ogni cosa in confusione, per la sfrenatezza di molti rinchiusi, per la trascuratezza e per la connivenza de’ serventi. Il tribunale e i decurioni, non sapendo dove battere il capo, pensaron di rivolgersi ai cappuccini, e supplicarono il padre commissario della provincia […] acciò volesse dar loro de’ soggetti abili a governare quel regno desolato. Il commissario propose loro, per principale, un padre Felice CASATI […], e per compagno […] un padre Michele POZZOBONELLI […]. Furono accettati con gran piacere; e il 30 di marzo, entrarono nel lazzeretto .[…] Di mano in mano poi che la miserabile radunanza andò crescendo, v’accorsero altri cappuccini; e furono in quel luogo soprintendenti, confessori, amministratori, infermieri, cucinieri, guardarobi, lavandai, tutto ciò che occorresse»

14) Si discute dell’efficacia del sistema democratico e di quello totalitario [specie cinese] nel combattere il contagio: [durante la Peste di Milano, il MANZONI confronta le carenze e la “confusione” della gestione precedente con i risultati della “dittatura” del Cappuccino al comando del Lazzaretto, ndr]

– [p. 615] «Il padre Felice, sempre affaticato e sempre sollecito, girava di giorno, girava di notte, per i portici, per le stanze, per quel vasto spazio interno, talvolta portando un’asta [bastone, ndr], talvolta non armato che di cilizio [usato come frusta, ndr]; animava e regolava ogni cosa; sedava i tumulti, faceva ragione alle querele, minacciava, puniva, riprendeva, confortava, asciugava e spargeva lacrime. Prese, sul principio, la peste; ne guarì, e si rimise, con nuova lena, alle cure di prima. I suoi confratelli ci lasciarono la più parte la vita, e tutti con allegrezza. Certo, una tale dittatura era uno strano ripiego; strano come la calamità, come i tempi».

15) Le bugie, l’incertezza, la confusione e le paure accumulate fanno si che si dia presto la caccia all’ “untore”: prima sono i cinesi ad aver portato il virus – ed alcuni sono persino aggrediti e percossi per strada – poi i tedeschi, quindi gli stranieri in genere e, non da ultimi, per SALVINI, i migranti sui barconi:

– [p. 616]: «Ma l’uscite, i ripieghi, le vendette, per dir così, della caparbietà convinta, sono alle volte tali da far desiderare che fosse rimasta ferma e invitta, fino all’ ultimo, contro la ragione e l’evidenza: e questa fu bene una di quelle volte […]. S’aggiunga che, fin dall’anno antecedente, era venuto un dispaccio, sottoscritto dal re Filippo IV, al governatore, per avvertirlo ch’erano scappati da Madrid quattro francesi, ricercati come sospetti di spargere unguenti velenosi, pestiferi: stesse all’erta, se mai coloro fossero capitati a Milano […].
– [p. 620]: «Mentre il tribunale cercava, molti nel pubblico, come accade, avevan già trovato. Coloro che credevano esser quella un’unzione velenosa, chi voleva che la fosse una vendetta di don Gonzalo Fernandez de Cordova [spagnolo, ndr] per gl’insulti ricevuti nella sua partenza, chi un ritrovato del cardinal di Richelieu [francese, ndr] per spopolar Milano, e impadronirsene senza fatica; altri, e non si sa per quali ragioni, ne volevano autore il conte di Collalto [comandante truppe tedesche], Wallenstein [tedesco, ndr], questo, quell’altro gentiluomo milanese»

– Nota:
– Gonzalo Fernandez de Cordova (1585-1635): governatore spagnolo di Milano 1625-1629: sconfitto dai francesi è richiamato a Madrid e processato.
– Cardinale RICHELIEU (1585-1642): ecclesiastico e politico francese, primo ministro di Luigi XIII.
– Conte Rambaldo Di Collalto (1579-1630): generale italiano, comandante truppe del Sacro Romano Impero, accusato di cospirazione, muore mentre rientra a Vienna.
– Albrecht Von WALLENSTEIN (1583-1634): generale tedesco-boemo, comandante dei mercenari tedeschi, assassinato dau un complotto dei suoi ufficiali.

– [p. 627]: «Tre giovani compagni francesi, un letterato, un pittore, un meccanico, venuti per veder l’Italia, per istudiarvi le antichità, e per cercarvi occasion di guadagno, s’erano accostati a non so qual parte esterna del duomo, e stavan lì guardando attentamente. Uno che passava, li vede e si ferma; gli accenna a un altro, ad altri che arrivano: si formò un crocchio, a guardare, a tener d’occhio coloro, che il vestiario, la capigliatura, le bisacce, accusavano di stranieri e, quel ch’era peggio, di francesi. Come per accertarsi ch’era marmo, stesero essi la mano a toccare. Bastò. Furono circondati, afferrati, malmenati, spinti, a furia di percosse, alle carceri. […]. Né tali cose accadevan soltanto in città: la frenesia s’era propagata come il contagio. Il viandante che fosse incontrato da de’ contadini, fuor della strada maestra, o che in quella si dondolasse a guardar in qua e in là, o si buttasse giù per riposarsi; lo sconosciuto a cui si trovasse qualcosa di strano, di sospetto nel volto, nel vestito, erano untori: al primo avviso di chi si fosse, al grido d’un ragazzo, si sonava a martello, s’accorreva; gl’infelici eran tempestati di pietre, o, presi, venivan menati, a furia di popolo, in prigione. Così il Ripamonti medesimo. E la prigione, fino a un certo tempo, era un porto di salvamento».

> Nota: MANZONI fa intendere, ma poi non sviluppa nel corso del romanzo, che anche le carceri non restarono un luogo sicuro. Perchè ci furono rivolte e disordini come adesso in Italia ?

> Nota di DOLCI Giulio: «E’ credenza antica per lo meno quanto la peste di Atene descritta da TUCIDIDE, che la malizia umana giungesse a tanto, da diffondere la peste ad arte […] Martino Delrio, il Wieiro ed altri trattatisti di diavolerie, assicurano che nel Marchesato di Saluzzo, fu propagata la peste con gli unti: v’è un trattato de peste manufacta e il Tadini ci conservò memorie di molte […] Vi credettero quasi tutti, il Cardano, il La Croce […], il Tadini, e lo stesso Federigo Borromeo»

16) Si creano situazioni di panico, di suggestione collettiva: chi corre per prendere il treno per fuggire da Milano, chi si precipita nei supermercati a fare scorte o nelle farmacie ad acquistare mascherine e gel disinfettante, un fenomeno che assomiglia al “celebre delirio” descritto da MANZONI:

– [p. 619]: «Ho creduto che non fosse fuor di proposito il riferire e il mettere insieme questi particolari, in parte poco noti, in parte affatto ignorati, d’un celebre delirio; perché, negli errori e massime negli errori di molti, ciò che è più interessante e più utile a osservarsi, mi pare che sia appunto la strada che hanno fatta, l’apparenze, i modi con cui hanno potuto entrar nelle menti, e dominarle. La città già agitata ne fu sottosopra: i padroni delle case, con paglia accesa, abbruciacchiavano gli spazi unti; i passeggieri si fermavano, guardavano, inorridivano, fremevano. I forestieri, sospetti per questo solo, e che allora si conoscevan facilmente al vestiario, venivano arrestati nelle strade dal popolo, e condotti alla giustizia. Si fecero interrogatòri, esami d’arrestati, d’arrestatori, di testimoni; non si trovò reo nessuno»

17) L’affollarsi degli ospedali provoca una carenza di medici e di infermieri, e l’aumento della mortalità crea difficoltà per le sepolture, costringendo le autorità ad assunzioni straordinarie e all’allestimento di nuove strutture:

– [p. 633]: «Così pure, trovandosi colma di cadaveri un’ampia, ma unica fossa, ch’era stata scavata vicino al lazzeretto; e rimanendo, non solo in quello, ma in ogni parte della città, insepolti i nuovi cadaveri, che ogni giorno eran di più, i magistrati, dopo avere invano cercato braccia per il tristo lavoro, s’eran ridotti a dire di non saper più che partito prendere […]. Il presidente della Sanità ricorse, per disperato, con le lacrime agli occhi, a que’ due bravi frati che soprintendevano al lazzeretto; e il padre MICHELE s’impegnò a dargli, in capo a quattro giorni, sgombra la città di cadaveri; in capo a otto, aperte fosse sufficienti, non solo al bisogno presente, ma a quello che si potesse preveder di peggio nell’avvenire. Con un frate compagno, e con persone del tribunale, dategli dal presidente, andò fuor della città, in cerca di contadini; e, parte con l’autorità del tribunale, parte con quella dell’abito e delle sue parole, ne raccolse circa dugento, ai quali fece scavar tre grandissime fosse; spedì poi dal lazzeretto monatti a raccogliere i morti; tanto che, il giorno prefisso, la sua promessa si trovò adempita. Una volta, il lazzeretto rimase senza medici; e, con offerte di grosse paghe e d’onori, a fatica e non subito, se ne poté avere; ma molto men del bisogno. Fu spesso lì lì per mancare affatto di viveri, a segno di temere che ci s’avesse a morire anche di fame; e più d’una volta, mentre non si sapeva più dove batter la testa per trovare il bisognevole, vennero a tempo abbondanti sussidi, per inaspettato dono di misericordia privata […].
– [Nota: ci sono anche gli ARMANI e la FERRAGNI]

18) Le spese enormi necessarie a finanziare l’emergenza sanitaria e a sovvenzionare le attività economiche bloccate oltre che le mancate entrate dalla sospensione delle tasse, richiedono al governo di stanziare Md€ (3 Md€ lievitati a 7 Md€ e più di recente a 10 Md€) e quindi di aumentare il debito pubblico:

– [p. 622]: «Divenendo sempre più difficile il supplire all’esigenze dolorose della circostanza, era stato, il 4 di maggio, deciso nel consiglio de’ decurioni, di ricorrer per aiuto al governatore. E, il 22, furono spediti al campo due di quel corpo, che gli rappresentassero i guai e le strettezze della città: le spese enormi, le casse vote, le rendite degli anni avvenire impegnate, le imposte correnti non pagate, per la miseria generale, prodotta da tante cause, e dal guasto militare in ispecie; gli mettessero in considerazione che, per leggi e consuetudini non interrotte, e per decreto speciale di Carlo V , le spese della peste dovevan essere a carico del fisco: in quella del 1576 avere il governatore, marchese d’Ayamonte, non solo sospese tutte le imposizioni camerali, ma data alla città una sovvenzione di quaranta mila scudi della stessa Camera; chiedessero finalmente quattro cose: che l’imposizioni fossero sospese, come s’era fatto allora; la Camera desse danari; il governatore informasse il re, delle miserie della città e della provincia; dispensasse da nuovi alloggiamenti militari il paese già rovinato dai passati. Il governatore scrisse in risposta condoglianze, e nuove esortazioni: dispiacergli di non poter trovarsi nella città, per impiegare ogni sua cura in sollievo di quella; ma sperare che a tutto avrebbe supplito lo zelo di que’ signori: questo essere il tempo di spendere senza risparmio, d’ingegnarsi in ogni maniera […]. (segue)

19) Atteggiamento collaborativo ma ambivalente della Chiesa: il Card. BASSETTI (P. Cei) su Avvenire ha dichiarato che la Chiesa si allinea pienamente alle disposizioni del governo, ma, secondo il CS, avrebbe sospeso messe e funerali solo dopo un braccio di ferro con il Governo, e nel comunicato ufficiale avrebbe fatto trapelare un forte disappunto, perchè come dicevano gli antici martiri “Sine Dominicum non possumus” e specificando che “Le Chiese in Italia non sono la setta sud-coreana dove si prega ansimando e tenendosi per mano”.

– [p. 624]: «Insieme con quella risoluzione, i decurioni ne avevan presa un’altra: di chiedere al cardinale arcivescovo, che si facesse una processione solenne, portando per la città il corpo di san Carlo. Il buon prelato rifiutò, per molte ragioni. Gli dispiaceva quella fiducia in un mezzo arbitrario, e temeva che, se l’effetto non avesse corrisposto, come pure temeva, la fiducia si cambiasse in iscandolo […]. Temeva di più, che, se pur c’era di questi untori, la processione fosse un’occasion troppo comoda al delitto: se non ce n’era, il radunarsi tanta gente non poteva che spander sempre più il contagio: pericolo ben più reale
– [p. 627]: « Ma i decurioni, non disanimati dal rifiuto del savio prelato, andavan replicando le loro istanze, che il voto pubblico secondava rumorosamente. Federigo resistette ancor qualche tempo, cercò di convincerli; questo è quello che poté il senno d’un uomo, contro la forza de’ tempi, e l’insistenza di molti. In quello stato d’opinioni, con l’idea del pericolo, confusa com’era allora, contrastata, ben lontana dall’evidenza che ci si trova ora, non è difficile a capire come le sue buone ragioni potessero, anche nella sua mente, esser soggiogate dalle cattive degli altri

20) Nel contrastato dibattito sulle misure contro il contagio, il governo finisce per limitare la circolazione delle persone, gli assembramenti e le manifestazioni pubbliche di ogni genere, compreso il calcio, suscitando paure e malumori: evidenti le analogie con le sollecitazioni e le resistenze alla processione con le spoglie di San Carlo descritta dal MANZONI, che invece di scongiurare la peste a Milano la diffonde:
– [p. 628]: «Al replicar dell’istanze, cedette egli dunque, acconsentì che si facesse la processione, acconsentì di più al desiderio, alla premura generale, che la cassa dov’eran rinchiuse le reliquie di san Carlo, rimanesse dopo esposta, per otto giorni, sull’altar maggiore del duomo. Non trovo che il tribunale della sanità, né altri, facessero rimostranza né opposizione di sorte alcuna. Soltanto, il tribunale suddetto ordinò alcune precauzioni […]. Prescrisse più strette regole per l’entrata delle persone in città; e, per assicurarne l’esecuzione, fece star chiuse le porte: come pure, affine d’escludere, per quanto fosse possibile, dalla radunanza gli infetti e i sospetti, fece inchiodar gli usci delle case sequestrate: le quali […] eran circa cinquecento […]. L’undici di giugno, ch’era il giorno stabilito, la processione uscì, sull’alba, dal duomo. Andava dinanzi una lunga schiera di popolo, donne la più parte, coperte il volto d’ampi zendali, molte scalze, e vestite di sacco. Venivan poi l’arti, precedute da’ loro gonfaloni, le confraternite, in abiti vari di forme e di colori; poi le fraterie, poi il clero secolare, ognuno con l’insegne del grado, e con una candela o un torcetto in mano. Nel mezzo, tra il chiarore di più fitti lumi, tra un rumor più alto di canti, sotto un ricco baldacchino, s’avanzava la cassa, portata da quattro canonici, parati in gran pompa, che si cambiavano ogni tanto. Dai cristalli traspariva il venerato cadavere, vestito di splendidi abiti pontificali, e mitrato il teschio; e nelle forme mutilate e scomposte, si poteva ancora distinguere qualche vestigio dell’antico sembiante, quale lo rappresentano l’immagini, quale alcuni si ricordavan d’averlo visto e onorato in vita. Dietro la spoglia del morto pastore […] veniva l’arcivescovo Federigo. Seguiva l’altra parte del clero; poi i magistrati, con gli abiti di maggior cerimonia; poi i nobili, quali vestiti sfarzosamente, come a dimostrazione solenne di culto, quali, in segno di penitenza, abbrunati, o scalzi e incappati, con la buffa sul viso; tutti con torcetti. Finalmente una coda d’altro popolo misto […]. La processione passò per tutti i quartieri della città: a ognuno di que’ crocicchi, o piazzette, dove le strade principali sboccan ne’ borghi, e che allora serbavano l’antico nome di carrobi, ora rimasto a uno solo, si faceva una fermata, posando la cassa accanto alla croce che in ognuno era stata eretta da san Carlo, nella peste antecedente, e delle quali alcune sono tuttavia in piedi: di maniera che si tornò in duomo un pezzo dopo il mezzogiorno. Ed ecco che, il giorno seguente, mentre appunto regnava quella presontuosa fiducia, anzi in molti una fanatica sicurezza che la processione dovesse aver troncata la peste, le morti crebbero, in ogni classe, in ogni parte della città, a un tal eccesso, con un salto così subitaneo, che non ci fu chi non ne vedesse la causa, o l’occasione, nella processione medesima. Ma, oh forze mirabili e dolorose d’un pregiudizio generale! non già al trovarsi insieme tante persone, e per tanto tempo, non all’infinita moltiplicazione de’ contatti fortuiti, attribuivano i più quell’effetto; l’attribuivano alla facilità che gli untori ci avessero trovata d’eseguire in grande il loro empio disegno. Si disse che, mescolati nella folla, avessero infettati col loro unguento quanti più avevan potuto»

21) Nota: Il Cardinal Federigo BORROMEO adottò un doppio atteggiamento, da un lato si preoccupò di salvare, mandandoli in luoghi salubri, i migliori maestri e artigiani e i suoi sacerdoti più validi, in vista della solidità della Chiesa all’ indomani dell’ epidemia, ma dall’altro invitò chi restava ad “andare incontro alla peste come a un premio”.

– [p. 634]: «Federigo dava a tutti, com’era da aspettarsi da lui, incitamento ed esempio. Mortagli intorno quasi tutta la famiglia arcivescovile, e facendogli istanza parenti, alti magistrati, principi circonvicini, che s’allontanasse dal pericolo, ritirandosi in qualche villa, rigettò un tal consiglio, e resistette all’istanze, con quell’animo, con cui scriveva ai parrochi: “siate disposti ad abbandonar questa vita mortale, piuttosto che questa famiglia, questa figliolanza nostra: andate con amore incontro alla peste, come a un premio, come a una vita, quando ci sia da guadagnare un’anima a Cristo” (Ripamonti, pag. 164.).
– Nota di DOLCI Giulio: «Le parole riportate dal Ripamonti sono tolte da una pastorale che il Cardinale disse al clero, avvicinandosi la peste: “Assumete viscere di carità; osservate il gregge, osservate ridotti all’ultima necessità qué figli che vi partorì e v’assegnò la madre Chiesa; e siate pronti, come io sono, a far getto di questa vita mortale, anzinchè abbandonare questa famiglia e prole nostra. Abbracciatge come vita e contento, la peste, possiate guadagnare un’anima sola a Cristo. Saplendano come lucerne la modestia, la sobrietà, la castità nostra e le altre virtù. Così lo sdegno celeste si placherà»

22) Nota: MANZONI, nel ricostruire il risultato della diffusione del contagio dopo la processione di Milano, rivela una serie di dati quantitativi che possono essere riassunti così:

– La peste del 1630 portò via circa 1 milione di persone tra Lombardia, Veneto, Piemonte, Toscana e parte dell Romagna.
– Il Lazzaretto di Milano era inizialmente dotato di 12.000 posti ai quali se ne aggiunsero altri 4.000 ricavati all’esterno in una nuova costruzione tutta di capanne e recintata.
– Nei 7 mesi del 1630 nei quali il Cappuccino Felice CASATI ebbe la guida del Lazzaretto, vi passarono 50.000 ricoverati.
– Dal giorno successivo alla processione dell’11 giugno 1630, gli appestati ricoverati nel lazzaretto passano da 2.000 a 12.000 e poi a 16.000 il 4 luglio 1630, con una mortalità giornaliera di 500 persone e un picco da 1.200 a 3.500 decessi al giorno.
– La popolazione di Milano si riduce quindi da 250.000 abitanti a poco più di 64.000, subendo circa 140.000 morti.

– [p. 631]: «Da quel giorno, la furia del contagio andò sempre crescendo: in poco tempo, non ci fu quasi più casa che non fosse toccata: in poco tempo la popolazione del lazzeretto, al dir del Somaglia citato di sopra, montò da duemila a dodici mila: più tardi, al dir di quasi tutti, arrivò fino a sedici mila. Il 4 di luglio, come trovo in un’altra lettera de’ conservatori della sanità al governatore, la mortalità giornaliera oltrepassava i cinquecento. Più innanzi, e nel colmo, arrivò, secondo il calcolo più comune, a mille dugento, mille cinquecento; e a più di tremila cinquecento, se vogliam credere al Tadino. Il quale anche afferma che, “per le diligenze fatte”, dopo la peste, si trovò la popolazion di Milano ridotta a poco più di sessantaquattro mila anime, e che prima passava le dugento cinquanta mila. Secondo il Ripamonti, era di sole dugento mila: de’ morti, dice che ne risultava cento quaranta mila da’ registri civici»