21 MARZO 1971

A 50 anni dalla scomparsa del compagno Danilo Mannucci, ricordiamo la sua figura e pubblichiamo uno scritto del figlio Giuseppe

Mannucci Danilo (Manlio Nanducci, Spiritus Asper)
(Livorno 28.8.1899 – Gardanne (Bocche del Rodano, Marsiglia, Francia) 21.3.1971)

Danilo Mannucci nasce a Livorno nel 1899 da Gastone ed Anna Peruzzi; il padre, soprannominato Libeccino, dal vento Libeccio che soffia a Livorno, è un repubblicano dirigente dell’associazionismo mazziniano e anticlericale. Di professione è rappresentante di commercio.
Il giovane Mannucci cresce in seno a un’umile famiglia proletaria nella quale, grazie all’influsso educativo paterno, ma anche a quello del nonno Giuseppe, si leggono giornali e libri, si studia e si discute di diritti sociali e civili e della difesa della libertà del proletariato.
All’età di 16 anni aderisce alla Federazione Giovanile Socialista Italiana, dopo aver appreso della morte in combattimento del suo segretario generale, Amedeo Catanesi (1890-1915), caduto il 17 luglio 1915 nelle trincee d’Andraz, sul Col di Lana, poi ribattezzato Col di Sangue.
Chiamato alle armi non ancora diciottenne nel maggio 1917, Danilo Mannucci, “ragazzo ’99, nell’estate del medesimo anno viene inviato in zona di operazioni, dove partecipa ai rastrellamenti dei reparti dispersi e sbandati dopo la sconfitta di Caporetto (ottobre 1917). Nel gennaio 1918 viene inviato sul Monte Grappa dove prende parte alla battaglia del Solstizio (giugno 1918) e alla controffensiva di Vittorio Veneto (ottobre 1918), resta al fronte anche dopo l’armistizio del 4 novembre 1918 e viene nominato caporale nel gennaio 1919. Ha seguito col comando gruppo i differenti spostamenti dalla zona del fronte fino a Cittadella (Padova) dove è rimasto fino all’ invio in congedo illimitato nel febbraio del 1920.
Immediatamente, partecipa attivamente al biennio rosso nelle file della Lega Proletaria dei Combattenti Livornesi, prima formazione di autodifesa armata operaia nella città portuale toscana.
Il 21 gennaio del 1921 è presente al Teatro San Marco di Livorno, (pur non essendo tra i 58 delegati della Frazione Astensionista) dove assiste alla nascita del PCd’I, al quale aderisce immediatamente contribuendo a fondare il 29 gennaio 1921 la Federazione livornese nella quale ricopre ruoli direttivi a partire dal marzo successivo.
Tra i fondatori degli Arditi del Popolo a Livorno, fa parte del suo Esecutivo segreto, diventa comandante di una compagnia formata da comunisti e grazie alla sua esperienza al fronte viene nominato, insieme ad Athos Freschi, comandante in seconda degli Arditi del Popolo livornesi, diretti dal socialista Dante Quaglierini, ex ufficiale di fanteria. Nel luglio del 1922 è costretto, con suo sommo dispiacere, a lasciare gli Arditi del Popolo dietro ordine esplicito della direzione del PCd’I.
Attivo oppositore dello squadrismo, a causa delle sue idee comuniste e anche per aver diffuso il Manifesto della IIIͣ Internazionale “Ai Lavoratori d’Italia”, viene arrestato ed imprigionato più volte dalle forze dell’ordine oltre ad essere aggredito e bastonato in più di una occasione dalle camicie nere.
Nel febbraio 1923 viene arrestato nel corso della famosa operazione di polizia, voluta dal primo governo Mussolini appena insidiatosi, che colpisce la maggior parte dei dirigenti (a incominciare da Bordiga), quadri e militanti del PCd’I, con l’accusa di “Complotto contro la sicurezza dello Stato” tuttavia nell’aprile 1923 viene rilasciato in seguito all’intervento dei dirigenti della Camera del Lavoro, tra i quali Augusto Consani.
Ricercato ancora dai fascisti per aver partecipato ai funerali di un anarchico, cui aveva presenziato insieme alla sua vecchia compagnia degli Arditi del Popolo, nel maggio 1923, grazie all’aiuto di alcuni compagni liguri, emigra clandestinamente in Francia, dove chiede l’asilo politico.
Stabilitosi a Marsiglia entra da subito nelle file del PCF, venendo chiamato alla segreteria del partito nel cantone di Gardanne (nel circondario di Marsiglia); inoltre diventa il comandante di una formazione comunista, una compagnia della centuria proletaria “Luigi Gadda”.
Per più di 10 anni dirige il Sindacato Unitario dei Lavoratori del Sottosuolo nelle Miniere di Carbone di Provenza (CGTU) di orientamento comunista. Come si può leggere nel verbale dell’interrogatorio di polizia che subirà a Livorno nel gennaio del 1936, svolge anche attività clandestina a Lione, Cannes, Beziers e in Alsazia.
Nel corso del 1935, in qualità di segretario regionale dirige gli scioperi delle miniere che coinvolgono circa ottomila lavoratori per circa 50 giorni, attività che gli frutta un’espulsione dalla Francia il 4 gennaio 1936.
Riconsegnato a Ventimiglia nelle mani della polizia fascista italiana, viene processato dal Tribunale Speciale e condannato a cinque anni di confino, con un prolungamento di due anni alla scadenza, che sconta dapprima ad Amantea e a Fuscaldo in Calabria, successivamente a Ponza e a Ventotene, a Pisticci (Matera) e infine a Baronissi (Salerno). In quest’ultima località lavora alla stesura di manifesti di propaganda per il partito che i compagni Matteo Romano e Luigi Rarita si incaricano di portare a Salerno.
Subito dopo lo sbarco delle truppe americane a Salerno, in una situazione piuttosto caotica, da subito presta la sua opera per l’organizzazione del Fronte di Liberazione Nazionale, della CGdL e della Federazione Salernitana del PCd’I.
Il 21 dicembre 1943 nasce la Camera del Lavoro affiliata alla CGdL, di cui diventa il primo segretario nel dopoguerra, dimettendosi però nel settembre 1944 rifiutando l’adesione alla CGIL imposta dal tripartito, in seguito al patto di Roma firmato il 9 giugno 1944 da Giuseppe Di Vittorio per il PCI, Achille Grandi per la DC e da Emilio Canevari per la componente socialista.
Il 10 gennaio 1944 si svolge a Salerno il I Congresso della Federazione Salernitana del PCI, che lo vede tra i relatori e che elegge segretario l’avvocato Ippolito Ceriello, comunista legato ad Amadeo Bordiga. Questo congresso ancora oggi non è riconosciuto dagli epigoni del PCI di Togliatti, i quali individuano come primo congresso solo quello del 27-28 agosto 1944.
La Federazione Salernitana del PCI inizia la pubblicazione del suo organo “Il Soviet”, senza l’autorizzazione del “Psychological Warfare Branch” (organismo anglo-americano incaricato di controllare i mezzi di comunicazione di massa italiani) e per questo sia Mannucci che Ceriello sono condannati ad un mese di carcere. “Il Soviet” proibito dalle autorità alleate su pressione della dirigenza nazionale del PCI, esce quindi come numero unico, poiché in esso sono contenute le linee politiche che Ceriello e Mannucci intendono portare avanti.
Infatti in contrasto alla “Svolta di Salerno”, voluta da Togliatti su ordine di Stalin, Mannucci e Ceriello si oppongono anche alla concezione togliattiana di “Partito Nuovo”, ragion per cui Mannucci, insieme a Mario Ferrante e Bernardina Sernaglia, viene espulso dal PCI dal “Comitato di Riorganizzazione” composto di stalinisti nella prima decade di luglio 1944 per corruzione e indegnità. Mannucci ne viene a conoscenza solo il 14 luglio dal giornale locale. Mannucci reagisce immediatamente con una lettera pubblicata nel stesso giornale Il Corriere del 15 luglio, affermando che la sua espulsione arriva un poco in ritardo «poiché io ero già non solo spiritualmente, ma anche materialmente molto lontano dal partito, che mi sta sempre nel cuore, ma dalla cricca dei suoi dirigenti che con la loro azione hanno falsato e sovvertito tutto il suo programma.» Circa la motivazione dell’espulsione, Mannucci averte che si accinge «a dare querela a chi di dovere con la più ampia facoltà di prove.» La lettera è firmata «Danilo Mannucci, comunista della vecchia Guardia, ex confinato politico.» Ippolito Ceriello invece viene espulso per ‟acclamazione” al Congresso della Federazione di Salerno del 27-28 agosto successivo.
Nei mesi successivi Mannucci, Ceriello e insieme al liberatorio Ettore Bielli, costituiscono la Frazione della sinistra salernitana che in qualche modo si ricollega alla Frazione di sinistra dei comunisti e dei socialisti, già presente nel variopinto quadro alla sinistra del PCI togliattiano e riconducibile all’altrettanto variegata tradizione bordighista.
L’unico giornale della frazione salernitana che ottiene l’autorizzazione, il 3 maggio 1945, è il quindicinale “L’Avanguardia”, il cui direttore responsabile è proprio Ippolito Ceriello; tuttavia l’autorizzazione alla pubblicazione del giornale viene revocata poco dopo e anche in questo caso del giornale esce solo un numero.
In quei primi mesi del 1945 Mannucci stringe una feconda collaborazione politica con il vasto movimento anarchico meridionale, scrivendo una serie di articoli per il giornale anarchico “Umanità Nova”, con lo pseudonimo di Spiritus Asper e intrattenendo (secondo alcune fonti di polizia) rapporti politici con il vecchio anarchico siciliano Paolo Schicchi e il suo “gruppo insurrezionale”.
A Napoli il 29 luglio del 1945 la maggioranza della Frazione decide lo scioglimento e la confluenza nel Partito Comunista Internazionalista, per cui anche Ceriello e Mannucci aderiscono al PC.INT.
Anche in questo caso tuttavia i contrasti con la direzione del Partito sono così aspri da costringere il Mannucci ad uscire dall’organizzazione, soprattutto a causa sia dell’adesione di Mannucci, Bielli ed altri all’associazione VI Braccio, organizzazione malvista dal PCINT perché considerata interclassista e apartitica, che della decisione di Ippolito Ceriello di candidarsi alle elezioni amministrative nel Comune di Laviano.
In seguito Mannucci aderisce al PSIUP negli anni 1947-1948, entrando in contatto con Lelio Basso e Alfonso Di Stasio e ricoprendo un doppio incarico, sia come funzionario di partito che come funzionario sindacale in zone difficili del Meridione, segnato dalle lotte contadine per l’occupazione delle terre in Calabria, Puglia e Basilicata.
Si stabilisce in Puglia per un anno e mezzo, dove partecipa e dirige le lotte dei braccianti del Tavoliere ed entra in contatto con Natino La Camera a Cosenza..
Nel 1949, compiuti i 50 anni, dei quali più di trenta passati fra lotte politiche e sindacali e aver subito anche sette anni di confino, ora che ha anche la responsabilità di una famiglia con moglie e tre figli piccoli, decide lasciare l’Italia e trasferirsi definitivamente in Francia, permettendo così ai suoi cari un’altra e migliore opportunità di vita.
Qui continua ad interessarsi di politica, legge “Le Monde”, “La Marseillaise” (giornale locale del PCF) e “L’Humanitè” e spesso ogni domenica mattina si reca al mercato di Gardanne, per diffondere “L’Humanitè-Dimanche”.
Dei giornali italiani trova a Gardanne solo “La Stampa”, “La Domenica del Corriere”, e la “Gazzetta dello Sport”, tuttavia riceve dall’Italia anche altra stampa: “Umanità nova”, l’”Avanti”, l’”Antifascista” e forse altri. Presta una certa attenzione ai problemi e alla politica italiana e francese nel corso di quegli anni, lo testimoniano la presenza alla Conferenza di Gardanne sul tema del sindacalismo e della storia italiana e due articoli scritti su “Umanità Nova” nel 1957, sempre con lo pseudonimo di Spiritus Asper.
Durante gli avvenimenti del 1968 prende posizione in favore degli studenti in sciopero e in particolare di Daniel Cohn-Bendit, Jacques Sauvageot e Alain Krivine.
Muore il 21 marzo 1971 a Gardanne, dove viene sepolto accompagnato dal canto dell’Internazionale durante funerali civili a cui partecipano esponenti del PCF e della CGT.

FONTI ARCHIVISTICHE E DOCUMENTARIE: Archivio Centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Casellario Politico Centrale, ad nomen; Archivio Fondazione Istituto Gramsci (Torino), Archivio Partito Comunista, Fondo Mosca; Archivio Giuseppe Mannucci (Banon, Francia); Archivio Nazionale Francese, Fascicolo Danilo Mannucci 8383; Battaglia Sindacale, 29 agosto 1944; Libertà, a. II, n. 2, 6 gennaio 1944; Libertà, a. II, n. 3, 13 gennaio 1944. Il nome di Mannucci, come quello di Ceriello, Bielli e Vincenzo Nastri, appare in una lettera della Regia Questura di Roma del 14/4/1945, con la menzione attività insurrezionale attribuita a Paolo Schicchi.

FONTI BILBIOGRAFICHE: N.Badaloni-F.Pieroni-Bortolotti, Movimento Operaio e Lotta politica a Livorno 1900-1926, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 144; M. Rossi, Livorno ribelle e sovversiva. Arditi del popolo contro il fascismo 1921-1922, BFS, Pisa 2013, pp. 66 e 86; I. Tognarini (a cura di), Livorno nel XX secolo. Gli anni cruciali di una città tra fascismo, resistenza e ricostruzione, Edizioni Polistampa, Firenze 2006, ad indicem; G. Amarante, I Congressi dei Comunisti Salernitani 1921-1972, Boccia, Salerno, 1990, ad indicem; F. Bucci, S. Carolini, C. Gregori, G. Permaria, Il Rosso, il Lupo e Lillo. Gli antifascisti livornesi nella guerra civile spagnola, La Ginestra, Castelfiorentino, 2009, ad vocem 7 settembre 1936; U. Baldi, Varcando un sentiero che costeggia il mare. L’avventurosa vita di Danilo Mannucci, Editrice Gaia, Angri 2013; L. Bussotti, Studi sul Mezzogiorno repubblicano storia politica ed analisi sociologica, Rubbettino, Soveria Mannelli 2013, ad indicem; G. Mannucci, Ricordando un internazionalista livornese, L’Internazionale, n. 113, aprile-maggio 2013, Livorno; G. Mannucci, Ricordando un internazionalista: Danilo Mannucci, Pagine Marxiste, n. 33, 20 giugno 2013; G. Mannucci, Casques blanques et boucliers noirs, Controverses, n. 5, maggio 2018, pp. 24-27; Istituto Galante Oliva, Scheda figure di Antifascisti, www.istitutogalanteoliva.it, ad nomen; Il Corriere, 15 luglio 1944.

Sul Fascismo e l’opposizione comunista:

T. Abse, Sovversivi e Fascisti a Livorno (1918-1922), Comune di Livorno (supplemento Comune Notizie), Livorno 1990.
P. Ceccotti, Il Fascismo a Livorno. Dalla nascita alla prima amministrazione podestarile, Ibiskos Editrice Risolo, Empoli 2006.
M. Mazzoni, Livorno all’ombra del Fascio, Olschki, Firenze, 2009.

Per un inquadramento delle vicende politiche generali che hanno coinvolto il PCd’I:

G.Galli, Storia del Partito Comunista Italiano, Edizioni Pantarei, Milano, 2011, riproduzione anastatica dell’edizione originale, Schwarz editore, Milano, 1958.
P. Spriano, Storia del Partito Comunista italiano. Da Bordiga a Gramsci, vol. I, Einaudi, Torino, 1967.
L. Cortesi, Le origini del Partito Comunista Italiano. Il PSI dalla guerra di Libia alla scissione di Livorno, Editori Laterza, 1972.
A. Tasca, I primi dieci anni del PCI, Laterza, Bari, 1973.
G. Seniga, Togliatti e Stalin, Sugarco Edizioni, Milano, 1978.
A. Agosti, Storia del Partito Comunista Italiano. 1921-1991, Edizioni Laterza, Bari, 1999.
E. Aga Rossi-V. Zaslavsky, Togliatti e Stalin. Il PCI e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca, Il Mulino, Bologna, 2007.

A 50 ANNI DALLA SCOMPARSA DI DANILO MANNUCCI (1899-1971)

UNO DEI LABRONI DIMENTICATI NELLA STORIA DEL XX SECOLO

L’aforista slovacca Patricie Holečková ha scritto questa sentenza che calza come un guanto non solo per Danilo Mannucci, ma anche per suoi compagni di lotta: «Nella lotta per la libertà, gli oppressi hanno spesso conquistato solo una maggiore libertà per i propri oppressori.» Le vite di costoro sono spesso trascurate dalla ricerca storica, non solo a livello accademico, ma anche e soprattutto dalla ricerca della cosiddetta storia locale, perché la loro presenza costituisce un atto d’accusa per chi in vario modo li ha perseguitati.
Infatti, persone come Danilo Mannucci e altri, dopo aver attraversato i tumulti dei diversi regimi politici, aver vissuto da protagonisti tutti gli eventi, e contribuito alle lotte per il progresso sociale, sono stati spazzati via come foglie ai quattro angoli del globo dal vento dell’infamia e della mancanza di memoria, confinandoli eternamente nelle catacombe della storia.
Essi non hanno ottenuto che il privilegio di essere calunniati senza pudore, trascinati nel fango, cercando infine di far cadere su di loro un silenzio di tomba. Infatti scrive lo storico francese Jean-Yves Le Naour: «Se la storia ha ritenuto solo l’azione eroica del cacciatore, è perché il leone non aveva storici» .
Tuttavia, a fianco alle “figure di spicco” della casta dominante, ci furono donne e uomini delle classi subalterne che hanno ugualmente scritto pagine della storia locale e internazionale. Questi valorosi, senza esitazione, senza timore, e spesso a rischio della loro stessa vita, si sono gettati nella vita politica e sociale del secolo XX per difendere la Libertà e l’Uguaglianza schiacciata dal barbaro trio infernale di quei tempi neri: fascismo, nazismo e stalinismo.
Danilo Mannucci, mio padre, fu uno di essi.

La “vecchia quercia”, stroncata in una via di Gardanne in Francia, crolla il 21 marzo del 1971, logorata dai gravosi accadimenti vissuti. Embolia polmonare diagnosticheranno i medici. Noi, familiari e compagni, abbiamo la consapevolezza di quanto pesantemente abbiano contribuito, le sofferenze della guerra di trincea nel corso della Prima Guerra mondiale voluta dalla classe liberale, i sette anni di confino comminati dal Tribunale Speciale fascista, i disagi e altre forme penose de persecuzione da lui vissute – quali impuniti oboli versati al fascismo e allo stalinismo – nel portare a termine la loro funesta opera di distruzione umana. Aveva 72 anni.
La fiamma di un certa idea di Libertà, Uguaglianza e Giustizia sociale, anzi un’idea certa di Libertà, Uguaglianza e Giustizia, veniva a spegnersi per sempre, ma non nel cuore di chi lo ama eternamente. Questo faro che, in ogni momento della sua esistenza, senza interruzione dai tempi ormai lontani della sopraffazioni fascista e stalinista, ha cercato di illuminare agli altri “i cammini dell’indipendenza e dell’equità”, si spegne nell’esilio di questa eterogenea terra straniera.
Un uomo capace di dedicarsi ad un progetto di trasformazione sociale in maniera generosa, persona determinata e incorruttibile che aveva perfettamente intuito la possibile evoluzione della Repubblica, della democrazia borghese ed anche del “comunismo carota e bastone” di Togliatti e Stalin, che non condivideva e a cui si è fermamente opposto.
Un uomo che deve il fallimento dei suoi sogni in buona parte ai suoi nemici peggiori, che non furono i questurini fascisti o le camicie nere, ma i compagni di tessera che lo hanno ridotto al silenzio con la calunnia, votandosi ad una logica “parlamentare” di declino malinconico e progressivo.
Un uomo a cui ritengo si debba arrecare rispetto profondo per il suo disinteresse, le sue sofferenze e il suo vivere “il Comunismo” come se esso fosse già in essere, non solo come Bandiera, ma come l’aria, l’acqua e il pane che ha condiviso con gli altri.
In queste modeste righe, all’occasione della cinquantesima ricorrenza della sua scomparsa, ho avuto “l’uzzolo” ‒ come si dice in Toscana ‒ di mettere in luce un ignoto labrone che fu un individuo (come tanti altri della stessa pasta) trascurato della Storia contemporanea, nato il 28 di agosto del 1899 a Livorno, in via Eugenia n. 7, nei pressi del quartiere popolare della Venezia Nuova, a due passi dalla Fortezza Nuova e dalla Porta San Marco.
In verità, Danilo Mannucci è un “illustre sconosciuto”, come pure una ampia quantità di “sorelle e fratelli d’arma” suoi che, come lui, non cedettero mai ai “canti delle sirene” del capitalismo.
E’ proprio inutile mettersi in cerca del suo nome in qualche Enciclopedia Universale, come della sua sepoltura nel Pantheon di Roma o in qualche famedio cittadino. Sarebbe altrettanto difficilissimo scovare una piazza, una via, pure un vicoletto a lui dedicato, o una statua per onoralo.
Come molti altri anonimi militanti rivoluzionari della classe proletaria, arditi protagonisti di lotte incessanti nel cuore stesso della storia contemporanea, con un’abnegazione sovrana al dovere, il suo nome, come pure quello di tant’altre e altri compagni di lotta, non si trova in nessun luogo.
È vero che nel mondo odierno, in cui tutti noi, disperatamente, tentiamo di sopravvivere decentemente giorno dopo giorno, solo le “eminenti celebrità” di qualsiasi genere e orizzonte democratici, sul piano sindacale o sul piano politico, godono di un’immortale “legittimazione” concessa per servilismo. Nonostante i loro conosciuti atti di malafede, sono “canonizzati” in innumerevoli opere sviluppate da vari autori la cui neutralità non è altro che vana parola.
Nella maggior parte dei casi, questi autori sono in totale disaccordo su congiunture molto specifiche, attestate dalla storia, perché ognuno di loro prende un maligno piacere nel “farle risplendere” secondo il suo loro colore politico, stabilendo così falsità di compiacenza.
I “combattenti dell’ombra”, donne e uomini che tra il 1922 e il 1945, quando il “Duce” e il “Führer” gettarono la loro ombra sulla maggior parte del continente europeo, rifiutarono di piegarsi di fronte alla forza e alla barbarie, e decisero di combattere per la libertà, donne e uomini che furono per lo più in prima linea, mettendo proprio in pericolo la loro vita per noi, dei quali le cosiddette “eminenti celebrità” hanno più che ampiamente approfittato, beneficiano soltanto del loro intrinseco “pantheon”: un cul-de-basse-fosse del discredito
Il loro sacrificio, il loro impegno per gli altri, senza pensare alla loro vita e senza disertare da una lotta per il benessere del popolo, è preferibile a quello di altri sedicenti eroi medagliati, perché queste persone coraggiose non hanno mai combattuto allo scopo di ottenere onorificenze alle quali essi non aspiravano.
Onorificenze che, all’inverso, alquanti ‟illustri personaggi politici italiani” della prima metà del Novecento, sedicenti difensori del proletariato, della vedova e dell’orfano, hanno conquistato con “fiore all’occhiello”, lottando con gran coraggio… seduti dietro una scrivania in qualche ufficio, magari all’estero, al riparo da ogni pericolo serio, là dove non si partecipa alla lotta!
Tra essi, voglio solo citare il “pupazzo” di Iosif Stalin, cioè Palmiro Togliatti, che tornò in Italia sbarcando a Napoli il 27 marzo del 1944, solo dopo lo sbarco degli alleati a Salerno del 9 settembre del 1943, quando non c’era allora più pericolo e usando ancora del falso nome di “compagno Ercoli”. Nessuno deve dimenticare che Togliatti, conosciuto come il “Migliore” ‒ il “Migliore” rispetto a chi? ‒, diete la sua “benedizione” ad uno degli aspetti più mostruosi, al punto da sembrare inverosimile: il massacro di centinaia di compagni comunisti italiani ‒ ma non solo ‒ che approdarono all’URSS sia per sfuggire al fascismo.
Essi furono vittime innocenti delle “grande purghe” staliniane, inconsapevoli e dimenticate. La complicità di Togliatti in questo sistema di orrore sovietico scatenato dal Maestro del Cremlino, l’inumano “Vojd” , può essere interpretato senza dubbio come un caso estremo di arrivismo politico che giunge, come prassi, all’eliminazione fisica degli avversari diretti personali. Tale fatto è accertato per merito delle ricerche storiografiche assidue sviluppatasi in massima parte oltre 40 anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, mediante l’apertura degli Archivi di Stato dell’ex Unione Sovietica.
In questi documenti, le responsabilità di Togliatti ‒ e della sua cerchia di opportunisti senza scrupoli ‒ nelle purghe staliniste degli anni del “Grande Terrore” alla metà degli Anni Trenta, appaiono inconfutabili nella eliminazione di comunisti italiani e non, deportati nei gulag o fucilati.
Ricordare Danilo Mannucci ha per scopo quello di cercare di far rivivere tempi dimenticati, personaggi emblematici oggi scomparsi, di cercare di fare resuscitare un’epoca passata, che perdurò nel cuore di coloro che l’hanno vissuta come un puro tesoro.
Queste righe sono anche per evidenziare la memoria collettiva di quelle lotte per la Libertà, quelle che ognuno di noi ha il dovere di trasmettere ai suoi figli, che sopravvivrà per le generazioni future: belle vicende, spesso tragiche, ma soprattutto nobili. E’ un invito al rispetto che ognuno di noi deve concedere ad essi, cosi come recita un antico proverbio africano: «un anziano che muore è una biblioteca che brucia.»
Il rispetto degli anziani è sempre stato molto importante per me, perché sono la memoria vivente della nostra società, il riflesso di un’educazione, di valori condivisi. Sono la stabile radice di ciò che noi siamo, le nostre origini, l’albero da cui siamo germogliati e a cui attingere per trovare conforto ed esperienza.
Spesso, hanno una lunga storia da raccontare, numerosi eventi e esperienze vissute, vicende che hanno tracciato la loro personale avventura, hanno abbattuto montagne, attraversato torrenti di avversità: ascoltarli, trasferisce in noi la saggezza che hanno acquisito quando, ovviamente, sono in grado di condividerla. Gli anziani, sono persone uniche, amorevoli ed insostituibili, “filo conduttore”, pilastro di una famiglia, la base di molte generazioni.
Gli anziani, quelli che hanno conosciuto due guerre mondiali e le relative stragi, erano biblioteche reali, fonti di conoscenza, depositari della storia della nostra famiglia, custodirono la saggezza che emerge dai consigli che dispensano, consigli sempre “attuali” nonostante le differenze fra le generazioni, e sempre dettati dal cuore.
Tocca a noi, la generazione dei Trenta Gloriosi del secondo dopoguerra di farli conoscere, perché il loro passato permette alle generazione odierne di conoscere ed apprezzare maggiormente il loro presente. Il rispetto, gli onori, la protezione, sono loro dovuti in omaggio al loro percorso, alle esperienze acquisite nel corso della loro esistenza.
Desidero concludere questo ricordo di mio padre con un’ode alla Libertà, versi composti nl 1972 in occasione della scomparsa di Ettore Bielli ‒ che fu un degno compagno di lotta di mio padre a Salerno contro il stalinismo ‒ da un caro amico suo che desidera restare anonimo: «Libertà, dell’immenso fienile povera pagliuzza, nel tuo nome lottai. Libertà, per averti e darti agli altri il prezzo che tu mi imponesti, io accettai. Libertà, sogno, speranza o forse diritto di umanità oppressa, tu dove sei? Libertà, io ti cercai.»

Giuseppe Mannucci, 21 marzo 2021